Don Milani e i suoi ragazzi affetti da mancanza di prepotenza?
Negati per gli studi?
Dopo il contributo sul sacerdote toscano e i suoi ragazzi di Emanuela Spigato, Valeria Magri ci offre il suo contributo con una esperienza tra il personale e il professionale
Era la primavera di molti anni fa quando salii a Barbiana, in compagnia di mio marito, con un profondo desiderio di vedere il luogo dove Don Milani, lì esiliato, raccoglieva i figli dei contadini della zona e faceva loro scuola. Erano gli anni ‘60. Avevo letto Lettera a una professoressa e mi aveva molto colpita. Forse, perché mi ricordava quel tipo di insegnante che anch’io avevo incontrato alla scuola media, era proprio così come veniva descritto nel testo. Ho trovato Barbiana un luogo così semplice e silenzioso, e tanto sacrale nella sua semplicità. Si respirava un clima religioso. La piccola chiesa, il cimitero con la tomba di Lorenzo, il cortile, la canonica, l’abitazione. Mentre ero lì l’immaginazione andava alle lezioni di Lorenzo. Così lo pensavo: bravo, in ascolto, ma anche severo e che leggeva i giornali ai ragazzi, perché per lui era importante partire dall’attualità.
Si è scritto tanto di Don Lorenzo Milani, anche in questo momento che ricorre il centenario della nascita. Si sono dette le cose più diverse. Era figlio di una famiglia aristocratica benestante, osteggiato per le sue idee dalla chiesa che amava, ma sempre a fianco agli ultimi. Si racconta che anche durante l’infanzia voleva giocare con i bambini più poveri di lui. Quando viveva nella tenuta di famiglia la Gigliola “gli dispiaceva che il fattore mandasse via i suoi compagni di gioco, quindi pretese di farli entrare nella tenuta” (Affinati 2016, 33). Arrivato a Barbiana, per lui, gli ultimi erano quei ragazzi che o non andavano a scuola perché appartenenti a famiglie povere oppure quelli che frequentavano la scuola pubblica ed erano comunque respinti. Perché così era scritto alla fine dell’anno scolastico: respinto. Termine che voleva dire che eri incapace, che non eri all’altezza, che dovevi andare a lavorare nei campi o in fabbrica. Non andavi bene per quella scuola. Per la scuola di Barbiana nessuno era negato per gli studi e chi rimaneva indietro o faceva fatica veniva aiutato. La scuola pubblica invece, la nuova media, istituita nel 1962, “Resta una scuola tagliata su misura dei ricchi. Di quelli che la cultura l’hanno in casa e vanno a scuola solo per mietere diplomi” (Scuola di Barbiana Lettera a una professoressa 1967, 31). Il libro è una denuncia alla scuola dove, in base alla classe sociale di appartenenza, si veniva promossi oppure respinti. Era una scuola classista, che respingeva utilizzando brutti voti, non facendo progredire, non aiutando chi ne aveva bisogno. Ma, come dice Don Milani, bisogna sempre considerare le origini. Da dove si parte, la famiglia è istruita o no? E’ chiaro che se i genitori sono istruiti sarà più facile frequentare la scuola con un profitto buono. E i genitori che si vedevano il figlio respinto pensavano questo: “Se le cose non vanno sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi. L’ha detto il professore. Che persona educata. Mi ha fatto sedere. Mi ha mostrato il registro. Un compito pieno di freghi blu. A noi non c’è toccato intelligente. Pazienza. Andrà nel campo come siamo andati noi”. (Scuola di Barbiana.Lettera a una professoressa, 1967, 33). Un marchio era quel respinto e così finivi per crederci anche tu. Penso quante intelligenze sciupate, incomprese, negate.
Lettera a un professoressa è una denuncia, una accusa a quel tipo di insegnanti che operavano nelle scuole pubbliche a quell’epoca. Un’opera corale. Perché questo testo è stato scritto insieme, da tutti coloro che frequentavano Barbiana. E’ frutto di un coro non di una voce unica. “La lettera è destinata a una professoressa che respingeva i suoi alunni, ma prima di tutto li intimidiva.” (Affinati 2016, 47).
Mi hanno colpito molto in particolare le prime pagine di Lettera a una professoressa, perché parlano della timidezza. Inizia così.
“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate […] Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra … sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla”
Scuola di Barbiana 1967, 9). Certo colpisce questo passaggio sulla timidezza. Testimonia il senso di inferiorità provato dalle classi povere, quel sentirsi inferiori, come se fosse naturale, normale essere considerati inferiori. Ed ecco la rassegnazione, quel “era negato per gli studi”, quel dare per scontato che la tua condizione era di startene in disparte, un non esserci perché questa era la cosa più naturale per te. E sulla timidezza continua così: “… la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. E’ solo mancanza di prepotenza.” (Scuola di Barbiana Lettera a una professoressa 1967, 10).
Un altro punto, a mio avviso, affrontato nel libro e di fondamentale importanza è quello che riguarda la centralità delle parole. Conoscere la lingua e avere un linguaggio forbito. “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”. (Scuola di Barbiana Lettera a una professoressa 1967, 96).
“A quei ragazzi che hanno tutte le porte chiuse di fronte, don Lorenzo consegna la chiave per aprirne una, la prima. Quella di uscire dal silenzio.” (Schiavon 2017, 19)
Il messaggio di Don Milani è, come dice il giornalista Andrea Schiavon “un invito a cercare le parole dentro se stessi, a vincere la timidezza e a dare un senso ai pensieri e alle emozioni che attraversano la mente e il cuore. La parola è la soglia tra il dentro e il fuori, scrive già nel 1956, molto prima di Lettera a una professoressa. […] la parola non è un miracolo ma un cammino. Faticoso, a volte zoppicante, ma che può portare lontano, come è accaduto ai ragazzi che, partendo dai monti del Mugello hanno raggiunto il mondo.” (Schiavon 2017, 18,19).
E se provassimo a chiederci: oggi, in questo nostro mondo chi sono i ragazzi di Barbiana?
“Oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Afghanistan, dalla Nigeria, dal mondo slavo. Hanno alle spalle detriti, macerie e relitti, eppure quando ridono sembrano aver dimenticato tutto. L’esempio di Barbiana torna a imporsi in chiave multiculturale per favorire una vera integrazione, che dovrebbe combattere anche la fragilità degli adolescenti italiani spesso inebriati dai miti del successo, della bellezza e della sanità. Del resto la presenza dei giovani migranti rende ancora più incandescente la grande questione sollevata dal priore con radicalità ben superiore alla semplice promessa politica: ‘uguaglianza delle posizioni di partenza’. Soltanto se non smetteremo di sentire come una spina dolorosa questo problema irrisolto potremo dire a noi stessi di non aver tradito lo spirito di Don Milani”. (Affinati 2016, 109)
Le parole di Eraldo Affinati denunciano ancora una volta la mancanza politica, istituzionale, sociale di voler effettivamente cambiare le cose. Sono state fatte in realtà molte cose negli anni passati, nella scuola, per i bambini che venivano da altri Paesi. Progetti localizzati interessanti di inclusione, insegnanti seriamente interessati a bambini e ragazzi stranieri. Ma quello che forse tende a non cambiare sono le nostre cornici, i nostri schemi, continuando a farci vivere in modo pregiudizievole i rapporti umani, le relazioni con l’altro da noi. Imparare a stare in scuole di frontiera quali sono alcuni istituti professionali, dove tutti i giorni bisogna combattere, mediare, ascoltare, è un compito difficile che gli insegnanti si trovano a svolgere.
A volte siamo in difficoltà, tutti, perché ci ritroviamo a lottare con le barriere che ci sono dentro di noi, nella nostra testa. E allora la strada da percorrere sembra essere quella del cuore. Se proviamo ad aprirlo i ragazzi ci verranno incontro, lasciando tracce dentro di noi di mondi altri. Solo così noi adulti potremo aiutarli, partendo dalle loro origini, dalle loro culture, facendo spazio alla ricchezza dell’alterità e allo scambio.