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Adolescenti disorientati e fragili. Una volta c’erano i riti di passaggio

Recuperare autorevolezza e fermezza

di Valeria Magri

I giovani sono sempre più disorientati. Al lavoro, nel rapporto con l’altro/a e nella vita in generale. Mancano riferimenti chiari, confini, senso del limite. Tutto è diventato fluido ed è sempre più difficile definirsi, trovare un’ identità e sentirsi nel posto giusto.

Non ci sono più i riti di passaggio che servivano, un tempo, a dare ai giovani punti di riferimento chiari e netti. Il loro indebolimento si ripercuote anche su tutto il contesto sociale dove è sempre più difficile riconoscersi. Questo sembrerebbe essere dovuto, secondo gli esperti, alla responsabilità degli adulti che, anziché essere riferimenti autorevoli, adottano comportamenti sempre più amichevoli nei confronti dei figli, contribuendo a creare una confusione di ruoli senza alcuna distinzione.

In occidente nessun rito sancisce il passaggio alla maggiore età. E’ cambiata la mentalità dei nuovi genitori, non ci sono più gerarchie nette. C’è sicuramente maggior socializzazione tra le generazioni, maggior dialogo e questo si dice positivo. Lungi da noi rimpiangere l’autoritarismo del passato. Ma possiamo affermare che qualcosa manca? Che questo non basta agli adolescenti?

Arnold Van Gannep, etnologo e folklorista, ha studiato i riti di passaggio, pubblicando nel 1909 la prima opera su tale argomento “I riti di passaggio”. Un testo molto importante anche per una migliore comprensione della strutturazione sociale. Rito deriva dal latino ‘ritus’ che significa “usanza” “disposizione” ma anche “ordine prescritto”. I riti sono codificati e ripetitivi. Sono momenti collettivi che delineano la transizione di un individuo da uno status all’altro. Il problema fondamentale di ogni società, per Van Gannep, è “come assicurare la coesione e la durata sociale nonostante il mutamento degli individui e le crisi dell’ambiente interno”. Secondo il suo modello “i riti di passaggio sono caratterizzati da tre fasi: la prima è la separazione in cui l’individuo esce dal proprio gruppo sociale, la seconda, detta liminale, in cui l’individuo ha abbandonato lo status precedente ma non è ancora approdato a quello successivo, infine la riaggregazione in cui l’iniziato rientra nel gruppo d’origine”.

Tutto questo non esiste quasi più nel mondo occidentale. Il depotenziamento dei riti di passaggio è verificabile ogni giorno. Un tempo, come ben spiega l’antropologo Marco Aime, “un senso di gerarchia abituava il bambino fin da piccolo all’idea che esisteva un mondo adulto a cui un giorno sarebbe approdato. Oggi sembra esserci finzione all’interno delle famiglie e una certa fluidità nei meccanismi sociali. Non bisogna dimenticare che, in ogni caso, i giovani incontrano sia la gerarchizzazione che i ruoli sociali ”. “Prima la società ti riconosceva un ruolo sociale in modo netto – dice Aime – oggi te lo devi conquistare e magari stenta a riconoscerlo”. Da questo possiamo dedurre, nelle giovani generazioni, una certa fragilità e difficoltà a trovare una propria collocazione. Un proprio posto nel mondo.

Non esiste più lo scontro generazionale di un tempo, in cui il giovane poteva identificarsi e mettersi in opposizione, per principio, a qualunque altra cosa che non appartenesse al mondo giovanile. Non esiste più una adesione totale al modello predefinito. C’è invece un mondo fluido in cui è difficile aggrapparsi a qualcosa che faccia sentire al ragazzo/a che esiste, che può sentirsi riconosciuto per quello che è e per come si vuole realizzare. Ed è proprio nella fase adolescenziale che assistiamo alla crisi della persona, dove succede che non ci si riconosca nemmeno nel proprio corpo, con tutti i suoi cambiamenti.

I giovani hanno bisogno di riferimenti chiari e netti che non devono essere quelli del passato. Si dovrebbe ricomporre invece un elemento generazionale non contrapposto, cioè genitori contro figli e viceversa. Sarebbe importante riuscire a trovare quella chiarezza per poter stabilire ed esprimere quale è il ruolo di uno e quale il ruolo dell’altro.

Certo l’auspicio non è tornare indietro, ad un tempo dove c’erano riferimenti autoritari che non lasciavano spazio al dubbio, alla riflessione, alla libera espressività, a nuove possibilità di vita. Sarebbe educativo intraprendere una strada di autorevolezza e fermezza che possa permettere al giovane di sentire che dall’altra parte c’è qualcuno che lo può aiutare davvero, che lo può accompagnare nel suo percorso di crescita, con un ascolto empatico ma anche con quella sana fermezza che fa sentire al figlio dove sta il genitore, quale è la sua posizione, la sua esperienza, la sua convinzione . L’adulto dovrebbe quindi recuperare quel ruolo, mantenendo le sue posizioni, le sue idee anche se diverse. Questa sembra essere la scommessa di questi ultimi tempi nel rapporto genitori e figli.