Volontari del dialetto – Passione Competenza e Pazienza
Il vocabolario italiano-dialetto carpigiano e la grammatica
Alcuni glottologi fanno risalire il linguaggio parlato dai diversi gruppi di popolazioni che abitavano la pianura padana a 7000 anni avanti Cristo. Linguaggio in continua evoluzione per l’apporto ciclico di contributi da parte di nuove genti con le quali era gioco forza rapportarsi per comprendersi, commercializzare e socializzare. Stranieri gli uni rispetto agli altri così come stranieri erano i romani che presero il sopravvento con le loro armi ma anche con la loro cultura e la loro lingua latina intorno al 250 avanti Cristo (è del 268 a.C. la fondazione di Ariminum), avvenimento questo che portò al crearsi di un linguaggio popolare ibrido (comune a tutto il territorio) che combinava il latino con parole delle popolazioni residenti da secoli in questi luoghi. Con le invasioni barbariche, lo spopolamento e il conseguente rifugiarsi stabilmente dei gruppi etnici in località chiuse in sè stesse e molto poco mobili, si vennero a creare parlate e pronunce diverse tra loro nelle singole porzioni di terreno, cosicché, quando, intorno all’anno mille, iniziò l’epoca dei comuni, in ognuno di essi si parlava un linguaggio diverso l’uno dall’altro, anche se restava un ceppo comune e se la lingua scritta comune a tutti restava il latino. Queste lingue erano chiamate “volgare”, ossia il dialetto, e una di queste sarà utilizzata da Dante per quella grandiosa opera che è “La divina Commedia” che creò un enorme impulso verso quel volgare prevalente che sarebbe stato codificato intorno al 1500 dopo lunghe dispute tra i dotti di quel periodo storico. In ogni parte d’Italia si continuarono a parlare i dialetti locali fino al 1861 quando, dopo aver fatto l’Italia, si dovevano fare gli italiani. Cominciò, da questo momento, un lungo e faticoso lavoro di conversione dei cittadini al parlare un “corretto italiano” (anche escludendo i dialetti dalle scuole) che non produsse grandi effetti se non negli anni trenta del 1900 con l’avvento della radio e successivamente, ancora di più, negli anni cinquanta con l’arrivo della televisione. E fu in questo periodo che i dialetti furono fortemente penalizzati, soprattutto nelle nostre terre padane (altrove, in alcune parti del nostro paese il dialetto resistette a questo assalto e si parla ancora oggi senza problemi), perché considerati ormai la lingua degli incolti di livello inferiore.
I risultati di questa lunga storia sono sostanzialmente due: primo, che i dialetti che il tempo ci ha consegnato sono diversi da città a città (anche vicinissime come Carpi, Correggio, Novi, Soliera) ma anche tra quartiere e quartiere, frazione e frazione della stessa città; secondo, che nella pianura padana e, in particolare in Emilia Romagna, quasi nessuno parla ormai più il dialetto. Si sta dissipando, purtroppo, un patrimonio culturale di grandissimo valore sul quale vale la pena fare profonde riflessioni e profondere un grande impegno per cercare di fare in modo che non venga perso del tutto. Occorreva un’opera di volontariato da parte di qualcuno armato di passione, pazienza e competenza, per salvare il salvabile. Anna Maria Ori e Graziano Malagoli si sono assunti questo compito insieme ad alcuni collaboratori, affrontando un gigantesco lavoro durato quasi vent’anni e concluso, prima, con la pubblicazione, undici anni fa, del dizionario di dialetto carpigiano-italiano e concluso, ma non è detto, con la recente pubblicazione del dizionario italiano-dialetto carpigiano e della relativa grammatica, opere portate a termine e presentate al pubblico carpigiano nell’auditorium della ex chiesa di San Rocco con l’aiuto della Fondazione Cassa Di Risparmio di Carpi e del Rotary Club Carpi.
Per Anna Maria, il dialetto si è presentato come un appuntamento epocale nella sua vita, prima, quando giovane studentessa, alla facoltà di glottologia dell’università di Bologna, le fu proposto uno studio sul dialetto carpigiano che lei rifiutò risolutamente trovandolo eccessivamente impegnativo, poi, dopo molti anni, quando la stessa proposta, che non ha rifiutato, le è stata fatta da Graziano e dalla Fondazione per la quale lei ha curato , con competenze e passione, la collana di storia locale che, ogni anno, per molti anni, è stata pubblicata a Carpi.
Per Graziano l’appuntamento col dialetto ha subito un percorso molto diverso. Figlio di un maestro elementare che insegnava nella frazione di Cortile, dove il dialetto era praticamente il solo linguaggio parlato, era severamente diffidato dal padre a pronunciare anche una sola parola in dialetto: non poteva essere che un maestro che faceva di tutto per estirpare questa mala pianta dalla lingua dei suoi alunni, avesse un figlio che la parlava. Dopo quasi mezzo secolo, alla fine del suo percorso lavorativo come ingegnere in un’azienda carpigiana in cui la maggior parte dei dipendenti parlava dialetto e coi quali era utile parlarlo, Graziano pensò di dedicarsi a questo impegnativo lavoro che mancava a Carpi, a differenza di molte altre città e paesi dove esisteva da tempo: scrivere un vocabolario del dialetto carpigiano. E qui conviene aprire una parentesi importante per chiarire che il nostro dialetto (e in generale i nostri dialetti padani) sono sempre stati solo una lingua parlata: tutti gli atti ufficiali e tutto quanto attiene alla scrittura è sempre stato scritto, prima in latino, poi in italiano. Gli unici documenti scritti in dialetto sono stati poesie e brevi scritti in prosa che hanno cominciato a comparire nella seconda metà del 1800 proseguendo poi per tutto 1900 anche attraverso la pubblicazione periodica di giornalini umoristici e poco altro. Esaminando questi “reperti” i nostri due studiosi hanno capito subito che ogni documento era scritto in modo diverso dagli altri: mancavano un dizionario e una grammatica che precisasse in modo chiaro e inequivocabile, come avviene d’altra parte in tutte le lingue del mondo, come si scrivono i singoli vocaboli e secondo quali norme si regola l’uso della lingua. Per venire a capo di questo problema è stata fondamentale la collaborazione del professor Fabio Foresti, ordinario di glottologia all’università di Bologna, da cui sono venuti decisivi chiarimenti su come si traducano in lettere i singoli caratteristici fonemi del dialetto, come le brevi, le lunghe, le aperte, le chiuse, gli accenti gravi e acuti, etc.
Ma c’era un altro problema a cui dare risposta: visto che, come accennato sopra, esistevano dialetti diversi per ogni quartiere cittadino (e anche qualcuno specifico per qualche particolare mestiere, vedi ad esempio il dialetto dei muratori) si doveva decidere a quale di questi fare riferimento ed anche, vista la continua mutazione nel tempo, a quale periodo riferirsi. La scelta è ricaduta sul dialetto del centro storico nel periodo a cavallo del 2000.
La prima edizione del vocabolario dialetto-italiano ha visto la luce nel 2011 ed è stato un grande successo di pubblico tanto che la Fondazione, pressata da molte richieste, ha ritenuto opportuno farne una ristampa. In quell’occasione Graziano è stato ospite della nostra redazione e l’articolo che è scaturito da quella conversazione è stato pubblicato sul nostro giornale nel Marzo 2017.
L’opera era comunque una cosa incompleta visto e considerato che, se era importante e corretto avere una versione dialetto-italiano, altrettanto importante era avere la versione italiano-dialetto e la relativa grammatica. “Cosa semplice”, dice di aver pensato Graziano in un primo momento. “Basta invertire i termini e il gioco è fatto…”. E invece il lavoro è stato quasi più impegnativo di quello precedente così come impegnativa, ci dice Anna Maria, è stata la creazione della grammatica che lei ha cercato di rendere il più possibile snella e digeribile in contrapposizione ad altre grammatiche dialettali realizzate in tomi voluminosi e pesantissimi. Dopo aver presentato il loro lavoro, alcune settimane fa, nell’auditorium di San Rocco, Anna Maria e Graziano sono stati ospiti della nostra redazione e ci hanno raccontato molto, se non tutto quello che sta dietro la loro fatica.
E qui, a questo punto, ci facciamo alcune domande:
“Cosa manca ora?” “Un’antologia” risponde qualcuno “l’insegnamento di ogni lingua è fatto dal vocabolario, da una grammatica, e queste ci sono, e da un’antologia, magari in questo caso fatta, soprattutto, di quelle vecchie poesie e di quei vecchi scritti cui si è accennato”
“Che cosa si fa nelle nostre zone, oltre al vostro lavoro, per tenere vivo il dialetto?” la risposta che viene fuori con la collaborazione di tutti è una serie di iniziative che vanno dal teatro dialettale che ha ancora oggi molti appassionati e molti seguaci, al concorso di poesia dialettale “Poetar Padano” che si tiene ogni anno presso la parrocchia di Cibeno, ai molti libri scritti dal nostro amico Mauro D’Orazi in cui indaga vecchi usi e costumi nostrani collegati ai relativi lemmi e modi di dire dialettali, a un altro vocabolario dialetto-italiano scritto da Massimo Loschi (quasi in concorrenza col nostro), a un allargamento del gruppo di lavoro carpigiano ad altri gruppi dialettali dell’Emilia che sul sito “I dialetti dal Po al Panaro”-inostridialetti.it- pubblica 248 frasi tradotte in 60 dialetti emiliani.
In ultimo esplode la più stringente delle domande. ”Quanto sopravviverà ancora il nostro dialetto?”. La risposta di Anna Maria è sintetica e lapidaria: ” Nel 2050 del nostro dialetto non resterà più traccia”. Un po’ più articolata ma non meno pessimistica è la disamina di Graziano: ”I nostri bisnonni parlavano solo dialetto, non capivano l’italiano e non avevano bisogno di capirlo perché quasi nessuno lo parlava, i nostri nonni parlavano solo il dialetto e capivano l’italiano ma non lo parlavano, i nostri genitori parlavano dialetto e all’occorrenza l’italiano, noi, nati a cavallo della seconda guerra mondiale, parliamo italiano, capiamo il dialetto, ma se lo volessimo parlare lo faremmo con qualche difficoltà, i nostri figli parlano italiano, faticano a capire il dialetto e non lo parlano, i nostri nipoti … scegliete voi il finale. Comunque –continua Graziano- il dizionario non finirà con noi ma noi faremo di tutto perché non finisca il dialetto ” ossia “ al disionaari al ne finirà mìa cun nuèeter mò nuèeter a faròmm de tutt pèr a n vèdder mìa finìir al dialètt”.
E’ finito l’incontro e, dopo esserci salutati, prendo come gli altri la via del ritorno con un pensierino che mi frulla insistentemente per la testa: “Ma tutta questa disquisizione l’abbiamo fatta parlando un perfetto italiano: e se l’avessimo fatta parlando dialetto? Magari anche un po’ stentato……” “Già, e se domani cominciassimo a farlo abitualmente nella nostra vita quotidiana?” ossia: “ E se dmaan a tachissen a féer él abitualmèint tutt i dé?”.
Mario Orlandi